Ogni narrazione è un percorso, una strada che ci accompagna attraverso luoghi nuovi e inesplorati. Fruirne è come viaggiare: all’immobilità fisica contrapponiamo un moto immaginativo. Non c’è in fondo molta differenza tra chi viaggia e chi si mette di fronte a una storia: ci sarà chi ha più l’attitudine del viandante, chi del pellegrino, chi dell’esploratore, ma poco cambia. Ogni volta che ci troviamo dentro a una narrazione nuova, dunque, che sia letteraria, filmica o seriale, ci stiamo incamminando lungo un sentiero sconosciuto e non sappiamo cosa ci attenda. Seguendo il paragone, l’elemento che più si lega al nostro ruolo di spettatori è il bivio. O meglio, la potenzialità del bivio. In questo concetto risiede il nostro più grande potere di fruitori: noi siamo sì, in parte, passivi nell’esperire quella storia, ma siamo attivi nell‘immaginarne possibili deviazioni. Con le serie questo poi capita spesso: finisce un episodio sul più bello e noi ci chiediamo, almeno fino alla visione di quello successivo, quale possibile strada prenderà la storia, a quale opzione cederà la narrazione. Quando poi scopriamo cosa accade, ecco che una delle strade che ci si erano prospettate nella mente viene come sbarrata da un muro. Talvolta non ce ne rendiamo nemmeno conto, ma altre non riusciamo a togliercelo dalla testa: eccolo lì a privarci del diritto di intraprendere quella strada, di scoprire quel mondo, di dare quel senso alla storia. É in momenti come questo che si fa largo in noi il rimpianto per quello che sarebbe potuto essere e non sarà. Andiamo avanti – viandanti, pellegrini o esploratori – lungo la via di quel racconto, ma nella testa torna spesso un pensiero, un’immagine: il Muro del Rimpianto.
American Horror Story era partita benissimo nel lontano 2011. Tutto sembrava preannunciare una Serie Tv che sarebbe sempre riuscita a saziare la nostra fame di horror senza però tralasciare la nostra insaziabile voglia di empatizzare: c’era tutto. C’era una storia, c’erano dei personaggi che sapevano trattarla e c’era la nostra emotività. Ed è con queste premesse e promesse che Ryan Murphy dà vita alla prima stagione di una Serie Tv antologica che è riuscita a conquistarsi un posto importante nel mondo seriale degli horror. Tutto inizia con Murder House: una scelta apparentemente scontata – una casa infestata nel genere horror equivale a a una bella giornata d’estate, è una cosa ovvia – ma che ha riservato una grande sorpresa. Perché in quella casa non c’erano soltanto fantasmi e nuovi proprietari alle prese con una medium, ma c’erano delle storie. Ogni spirito era intrappolato lì con una storia ben definita, con una ragione, un obiettivo. I padroni di casa, invece, dovevano cercare di rimanere a galla nella loro vita che era già troppo complicata a causa delle loro stesse personalità. Spiegandoci meglio: tutti sapevano auto sabotarsi già da soli, senza l’ausilio della convivenza con degli spiriti maligni. Proprio loro, nel frattempo, guardavano da dentro le mura l’andare avanti di una normalissima vita comprendendo quanto le differenze tra l’essere vivi e l’essere morti in quel caso fossero così sottili. Ed è per questo motivo che Murder House riesce ad aprire il portone, con una storia semplice, a tutte le infinite possibilità che una storia come questa potesse regalare. Il finale, in pieno stile Murphy, decide di ribaltare la situazione donandoci in pasto un epilogo che riesce a far comprendere quanto in realtà le differenze tra una vita mortale e non ci siano eccome, e stanno tutte nelle possibilità di riscatto. Nessuno, con quell’epilogo, poteva avere la possibilità di ricominciare. Tutti avevano perso e avevano come unica spiaggia possibile il tentativo di provare a convivere dentro uno spazio in cui sono incastrati, ed è così facendo che American Horror Story trova presto la chiave che la contraddistingue da tutto quello che il mondo seriale horror ci aveva proposto fino a quel momento. Ryan Murphy aveva trovato una chiave, e quella chiave – tra non molto – sarebbe, purtroppo, andata perduta.
Murder House introduce, così, la seconda stagione che altro non è che una perla nel mondo di Ryan Murphy.
Perché se la prima stagione riesce perfettamente a eguagliare le aspettative, la seconda le supera abbondantemente. In questo caso ci ritroviamo in un manicomio dai bruschi metodi di riabilitazione in cui fantasia e realtà sono due concetti comunicanti che – in coesione – danno vita a una storia cruda che ci trasporta in un mondo brutale che rende la stabilità mentale un concetto ingiudicabile, frutto di un universo che per primo è totalmente folle. Questa follia si respira in ogni episodi di Asylum e aiuta Murphy a creare una seconda stagione che riesce a sviluppare più argomenti dentro un solo set: quello del manicomio. In questo modo si mescolano storie aliene, demoniache, naziste, esperimenti scientifici, omosessualità e disuguaglianza. Tutto questo avviene in soli 13 episodi che dimostrano quanto lo sceneggiatore sia in grado di mescolare varie tematiche senza mai stonare o uscire fuori dai bordi della trama reale. Tutto in Asylum fluisce verso l’unico obiettivo di dimostrare quanto la follia non sia solo una diagnosi, ma quanto alberghi in ognuno di noi, soprattutto – spesso – in chi si sente totalmente esente da essa.
Murphy è riuscito, così, a creare una storia umana che però, con la terza stagione, inizia a essere già a essere stanca, a dare i primi sintomi di debolezza.
Coven – infatti – cerca di essere forte tanto quanto le prime stagioni, ma qualcosa le sfugge. Le streghe sono al centro dell’attenzione, ed è forse su questo tema che Murphy avrebbe dovuto interrogarsi di più perché – per quanto se ne dica – questo non è un argomento così semplice da portare in scena, e può essere facilmente vittima di banalità. Ed è così che lo sceneggiatore, per la prima volta, cade nel tranello che ha sempre scansato diventando ripetitivo e vittima di un ritmo che non riesce a stare al passo con ciò con cui ci aveva abituato.
La regina indiscussa di American Horror Story è sempre stata Jessica Lange. I suoi ruoli hanno sempre messo al primo posto l’ambiguità dell’animo umano mostrandolo con tutte le sue contraddizioni, il suo immenso fascino. In Coven, in qualche modo, la Lange viene messa più in ombra e questo è un segnale che sarebbe dovuto bastare a Murphy per comprendere che una possibile dipartita dell’attrice potesse essere deleteria per la sua creatura.
Anche in questo caso ci troviamo di fronte a 13 puntate che, al contrario delle precedenti esperienze, rimangono quasi sempre al punto di partenza conferendoci una narrazione che ha messo d’accordo quasi la maggior parte dei fan della serie: quello che avevano di fronte, era ben diverso dal solito American Horror Story. Chissà come, però, in qualche modo Ryan Murphy comprende di dover faticare il doppio con la sua prossima stagione, che quell’errore poteva rappresentare una ferita troppo grave per la serie. Ed con questo timore che lo sceneggiatore sforna una quarta stagione che non ha nulla da invidiare alle prime due creature riuscendo a stupire tutti, anche i più titubanti.
Freak Show ha fatto tornare American Horror Story in vita con una storia ambientata in un circo in cui tutti hanno una propria caratteristica, una propria carta d’identità ben visibile. Per questo motivo, probabilmente, questa stagione suona quasi impeccabilmente: la firma di Ryan Murphy è lampante, la Lange si riappropria di un ruolo magistrale e tutti i personaggi ritrovano un campo in cui far emergere le proprie storie, le proprie personalità e peculiarità. Perché, per prima cosa, American Horror Story è una storia corale che non accetta di tralasciare nulla, che vuole fornire un dettaglio anche sul più piccolo frammento della trama.
Purtroppo, però, Freak Show rimane tuttora il vero e ultimo capolavoro nel mondo delle stagioni della serie. Da quel momento, le cose andranno sempre più male.
La dipartita di Jessica Lange, così come immaginavamo, ha segnato una brutta scivolata per American Horror Story. Senza di lei le cose hanno iniziato a perdere il loro fascino per un motivo ben chiaro: i ruoli che interpretava erano cuciti addosso a lei e solo e soltanto l’attrice poteva dargli vita, senza di lei quelle essenze non potevano esistere. Ed è così che Murphy – nella quinta stagione – cerca di fare una mossa da maestro che riesca a coprire un’assenza così fondamentale: mette in scena Lady Gaga, e non in un ruolo qualsiasi. Sceglie la cantante per interpretare un ruolo primario all’interno della serie conferendole quasi la responsabilità di fare ciò che sarebbe dovuto toccare a Jessica Lange, ma come abbiamo detto questa era un’operazione ben impossibile. Erano i ruoli a scegliere l’attrice, non il contrario.
La quinta stagione – Hotel – riesce nel suo obiettivo di essere apprezzabile agli occhi del pubblico soprattutto per via dell’unica caratteristica ancora rimasta in vita delle storie di Murphy: la pluralità dei sentimenti di ogni personaggio. Ma, tolto questo, la storia prosegue con non pochi momenti bui che a volte rendono difficile la visione della serie in modo continuo, trasparente. Al di sopra di tutto si pone la nostra curiosità, la volontà di sapere come andranno a finire le storie iniziate, ma quel coinvolgimento che avevamo per le precedenti stagioni manca totalmente, e ancora una volta – come in Coven – ci sentiamo vittime di uno show che sta per abbandonare la sua vera essenza, ma stavolta per sempre.
Nulla dopo Freak Show è rimasto lo stesso, e il peggioramento in Hotel è solo una piccola anticipazione di tutto quello che ci aspetta.
Dobbiamo essere brutali, dobbiamo dirlo: American Horror Story ha perso la sua anima e non l’ha più ritrovata. La sua essenza è stata barattata in nome della voglia di continuare, e la sua originalità ha perso totalmente la rotta confondendosi con qualcosa che pecca di credibilità. Murphy ha cercato di sfidarsi a farne le spese è stata la sua voglia continua di rendere come unica protagonista l’eccentricità. In qualche modo, nelle prime stagioni, lei è sempre stata presente ma ciò di cui stiamo parlando adesso va oltre ogni limite. Questo suo modo di renderla la misura di tutte le cose ha rotto in mille pezzi l’essenza di Ryan Murphy e ci ha consegnato un prodotto che predilige la storia in quanto storia d’azione, e non il personaggio che la vive. L’anima di chi subisce o di chi ferisce viene totalmente dimenticata e messa da parte dandoci in pasto un racconto superficiale, apatico ma con la maschera di chi invece finge vulnerabilità. Questo aspetto era fondamentale prima: la nostra emotività era il campo su cui Murphy voleva fare goal, mentre adesso la sensazione che si ha è che lui non riesca più a tirarci fuori quella parte. Forse noi siamo il suo più grande rimpianto.
Spesso ci sentiamo trasportati in una black comedy che, per quanto sia affascinante, non è ovviamente American Horror Story e non è neanche obiettivo dello sceneggiatore fare tale metamorfosi, è stato tutto un involontario frutto di un errore, di una perdita di via.
In qualche modo Ryan Murphy ha compreso di aver dato vita a delle grandi stagioni che non è più riuscito a riportare sullo schermo, ed è con questo obiettivo che cerca – nell’ottava stagione – di salvare le sorti del suo show con un crossover con la prima stagione, un gesto nobile che però non riesce a bastarci. Perché se perdi la rotta non ti basta copiare la bella copia di un tema andato bene, devi trovare la chiave per rivoluzionarlo e riportarlo a galla in un altro contesto. Una cosa, questa, che non è riuscito a fare.
Il crossover è risultato forzato. L’unica cosa che ha giovato a suo favore è stata la malinconia dei fan, la curiosità di sapere che fine avessero fatto quei personaggi che dentro di loro contengono tutta l’essenza di American Horror Story, un prodotto che ancora non è riuscito a dirci addio.
Ryan Murphy non riesce a salutarci. Trova sempre un metodo per richiamare la nostra attenzione verso la prossima stagione che arriverà, dimenticandosi che ostinarsi e strafare non può essere altro che deleterio. Quello che ha fatto fa parte di un passato che non riesce più a ricreare, e forse questo non è un problema che può essere risolto continuando a provarci così tante volte. Le storie di American Horror Story sono diventate un cumulo di azione ed erotismo dai toni black, eccentrici e fuori dalle righe. Il sacrificio in nome di tutto questo è chiaro: la qualità, ciò che ha sempre contraddistinto l’essenza di quell’horror che sembrava solo poter essere creato da Murphy.
Chiariamoci: il nemico Trash ha sempre guardato dall’angolino la serie, l’ha sempre puntata pronto a intervenire, ma in qualche modo lo sceneggiatore è riuscito a evitare che questo prendesse vita sapendo fermarsi di fronte al limite ultimo che imponeva la sua entrata in scena, ma con la nona stagione il nemico ha preso campo. Serial Killer e anni ’80, le due combinazioni danno due possibili vie: o il trash vince, o tu fai un capolavoro, non esistono molte vie di mezzo. Il trash ha vinto e ha messo Murphy con le spalle al muro facendogli comprendere che da adesso in poi non può più sbagliare, che deve cercare di fare qualcosa per recuperare quell’anima persa che, a oggi, è il suo più grande rimpianto. La decima stagione sta per tornare, e finalmente avremo modo di capire se il noto sceneggiatore ha trovato un modo per chiedere scusa – prima che a tutti noi – a se stesso per aver voluto strafare su un prodotto che poteva diventare intoccabile e che adesso deve affrontare un ennesimo nemico: The Haunting Of Hill House e Bly Manor, che – con sole due stagioni – ci hanno dato ciò che lui ci aveva tolto.