Ogni narrazione è un percorso, una strada che ci accompagna attraverso luoghi nuovi e inesplorati. Fruirne è come viaggiare: all’immobilità fisica contrapponiamo un moto immaginativo. Non c’è in fondo molta differenza tra chi viaggia e chi si mette di fronte a una storia: ci sarà chi ha più l’attitudine del viandante, chi del pellegrino, chi dell’esploratore, ma poco cambia. Ogni volta che ci troviamo dentro a una narrazione nuova, dunque, che sia letteraria, filmica o seriale, ci stiamo incamminando lungo un sentiero sconosciuto e non sappiamo cosa ci attenda. Seguendo il paragone, l’elemento che più si lega al nostro ruolo di spettatori è il bivio. O meglio, la potenzialità del bivio. In questo concetto risiede il nostro più grande potere di fruitori: noi siamo sì, in parte, passivi nell’esperire quella storia, ma siamo attivi nell‘immaginarne possibili deviazioni. Con le serie questo poi capita spesso: finisce un episodio sul più bello e noi ci chiediamo, almeno fino alla visione di quello successivo, quale possibile strada prenderà la storia, a quale opzione cederà la narrazione. Quando poi scopriamo cosa accade, ecco che una delle strade che ci si erano prospettate nella mente viene come sbarrata da un muro. Talvolta non ce ne rendiamo nemmeno conto, ma altre non riusciamo a togliercelo dalla testa: eccolo lì a privarci del diritto di intraprendere quella strada, di scoprire quel mondo, di dare quel senso alla storia. É in momenti come questo che si fa largo in noi il rimpianto per quello che sarebbe potuto essere e non sarà. Andiamo avanti – viandanti, pellegrini o esploratori – lungo la via di quel racconto, ma nella testa torna spesso un pensiero, un’immagine: il Muro del Rimpianto.
Da quando il romanzo High Fidelity di Nick Hornby è stato pubblicato per la prima volta nel 1995, ha presto assunto lo status di cult generazionale, lodato per la sua capacità di navigare la psicologia e le difficoltà a relazionarsi dei trentenni degli anni Novanta, in modo non dissimile da quanto avvenuto in tempi recenti con Normal People di Sally Rooney (ve ne abbiamo parlato qui). L’opera di Hornby ha ispirato negli anni successivi alla sua pubblicazione diverse reinterpretazioni, che l’hanno portata prima sul grande schermo – indimenticabile il film omonimo del 2000 con protagonista John Cusack, anch’esso presente nel catalogo di Disney Plus – quindi sul palco di Broadway e infine nel mondo della serialità, trasformata da Hulu in un catartico racconto composto di soli dieci episodi.
Laddove il film e il musical mantenevano una certa fedeltà rispetto al romanzo di Hornby, la versione seriale di High Fidelity preferisce rendervi omaggio in termini di toni e atmosfere, lasciando tuttavia che la protagonista della serie Rob (interpretata dalla magnetica Zoë Kravitz) – che mantiene il nome del personaggio principale del romanzo, ma diviene una voce narrante femminile invece che maschile – persegua una sua storia autonoma, un suo viaggio fallimentare del tutto personale.
High Fidelity è uno spaccato di vita tra confusione, paure e sensualità
High Fidelity è la storia di Rob, trentenne che si auto-descrive, guardando dritto in camera, come “la più accanita fan della musica, nonché la proprietaria di un negozio di dischi che è ossessionata dalla cultura pop e dal creare liste per le sue Top Five”. Conosciamo Rob mentre la vediamo cadere a pezzi, mentre quasi si impegna per far sì che il disastro che sembra formarsi intorno alla sua vita continui a crescere, perché non le dia tregua, perché non possa mai guarire. Rob ha il cuore spezzato, la fine della sua ultima relazione ci appare come un mistero, una ferita aperta che la protagonista non vuole far rimarginare, a cui ritorna costantemente.
Non c’è fedeltà nel comportamento di Rob, una trentenne scostante ed egoista, eppure quel titolo “high fidelity“, alta fedeltà, è perfetto per la serie.
Vi è fedeltà nel comportamento dei personaggi principali, caratterizzati da una sostanziale coerenza, da una passione per la musica e per la vita che è un inno alla fedeltà, se non verso gli altri quanto meno verso se stessi. E allora l’unico vero punto fisso del racconto, nonché suo elemento principale e distintivo, diventa la passione, che si concretizza non solo nel rapporto fisico, nella sensualità cercata e poi rifuggita da Rob, ma anche nella forma più pura di cieca adorazione, di ossessione senza confini per la musica che accompagna la vita dei protagonisti, che diventa loro diario e valvola di sfogo.
Creare una playlist è un’arte delicata. Ti permette di utilizzare la poesia di qualcun altro per esprimere come ti senti. È come scrivere una lettera d’amore, ma in un modo migliore.
High Fidelity, proprio come una playlist minuziosamente composta, è un delicato equilibrio di poesie, di pensieri confusi e sinceri che vanno a creare il racconto di Rob, una storia che parte nascosta tra filtri e mezze verità e che mano a mano vede la protagonista spogliarsi della sua corazza, mostrare le crepe che segnano la sua anima e le ferite che lei stessa si è inferta. Proprio come l’omonima protagonista di Fleabag parlava alla telecamera cercando di mostrarsi migliore di quello che è, salvo poi rivelarsi in tutto il suo sensuale dolore e in tutti i suoi sbagli, anche Rob deve fare i conti con una narrazione del sé che la delude, ma che eventualmente la spinge ad affrontare i suoi tentativi di auto-sabotarsi.
Rob Brooks è infatti un personaggio femminile carismatico e autodistruttivo come raramente ci è dato di vedere in televisione, realistica nel suo dolore quanto nella suo desiderio di nascondere agli altri il vuoto che la divora.
Come l’intera generazione di cui diviene simbolo, Rob fatica a trovare le parole per esprimersi, si sente prigioniera della sua inadeguatezza e allora cerca vie di fuga che le permettano di non perdere il contatto con la realtà. Per questo diviene ossessionata dalla musica, che diventa un’estensione stessa della sua vita, e da quella mania per le liste e le classifiche che sembra ricomparire ogni qualvolta il suo senso della realtà diviene oppressivo. Quando la protagonista di High Fidelity si trova in difficoltà, somatizza il suo disagio canalizzandolo tutto in quelle top five che ci accompagnano per l’intera la serie e che, oltre a farci conoscere o riscoprire dischi meravigliosi, hanno il compito di distrarre tanto noi quanto Rob dalle difficoltà e dalle angosce della vita quotidiana.
La bellezza senza tempo di High Fidelity sta allora nel suo essere un diario universale, una raccolta di pensieri che toccano l’anima e che raccontano una storia che abbiamo già sentito, ma in un modo così veritiero, così inedito da arrivare dritto al cuore. Non guasta poi il fatto che la protagonista della serie sia interpretata da Zoë Kravitz, le cui straordinarie doti attoriali erano già state ampiamente dimostrate dalla sua partecipazione a Big Little Lies, che ci regala una performance intensa, piena di sfaccettature, carica di un magnetismo che ci impedisce di staccarle gli occhi di dosso e ci fa pendere dalle sue labbra, rapiti mentre la vediamo dare vita a Rob.
Eppure né qualità della scrittura, né il carisma di Zoë Kravitz, né tanto meno la colonna sonora perfetta che fa da protagonista sono valsi a High Fidelity la possibilità di ottenere il rinnovo per una seconda stagione. E secondo noi questa è un’occasione sprecata, perché la serie aveva ancora molto da raccontarci.
La cancellazione precoce di High Fidelity non lascia grossi punti interrogativi, non ci sono storie che non hanno una conclusione. O meglio, nessuna storia ha una vera e propria conclusione, perché è una serie che essenzialmente parla di vita e la vita come ben sappiamo è un costante succedersi di avvenimenti che si accavallano, si susseguono senza logica, a volte portano a conclusioni e a volte a nuovi inizi. High Fidelity è proprio così, è un costante divenire, una scoperta di sé, la navigazione del mondo.
Perciò quello che rimpiangiamo non è tanto non sapere cosa ne sarà di Rob, di Simon, di Cherise o di Clyde, perché in fondo lo possiamo immaginare, o perché forse nemmeno importa alla fine. Quello che ci lascia l’amaro in bocca è che non vederli crescere o sbagliare, non vivere attraverso di loro, non guardare più il mondo con i loro occhi disincantati eppure mai eccessivamente cinici, non sentire le top five di Rob che ormai erano diventate un po’ come una scuola di vita, un sfogo che si infilava sotto alla pelle, fino alle ossa.
High Fidelity è dotata della rara bellezza che ha la verità, della capacità di cancellare le barriere ed essere casa per lo spettatore. Non succede spesso che la televisione diventi estensione dei nostri occhi, la serialità proiezione della nostra anima. Eppure è questo che avviene quando guardiamo High Fidelity e sentiamo Rob rivolgersi direttamente a noi, svelarci la sua storia un pezzo per volta, mentre cadono i suoi muri e la vediamo per quella che è, rapiti dal suo carisma e finalmente compresi nella sua insicurezza, nella sua tendenza ad auto-sabotarsi, nel suo terrore viscerale di mettersi di nuovo in gioco e aprire il suo cuore. Seguire le avventure dei personaggi della serie è come ascoltare dei vecchi amici intenti a dare un senso alla loro vita e che per farlo tentano di convincerci della correttezza delle loro azioni, quando in realtà altro non vogliono che cercare di convincere se stessi. È questo il nostro rimpianto, quello di non poter più dialogare con i nostri vecchi amici, non sapere se i loro tentativi di crescere andranno a buon fine. Possiamo solo sperare che sarà così, pur coscienti che la fine, in fondo, non è che un istante in una vita di esperienze e che l’importante è che in sottofondo ci sia sempre la colonna sonora perfetta.