Cosa succede dopo l’ultima puntata delle vostre serie tv preferite? ‘Forse non è la fine’ è la prima puntata (immaginaria) dopo l’ultima puntata delle vostre serie tv preferite. Oggi è il turno di Californication.
Ho sempre vissuto senza aspettarmi nulla. Ho preso quello che la vita, o meglio quello che qualche signorina ben disposta e aperta, mi ha generosamente offerto, umido e caldo rifugio alla mia infelicità. È stato tutto ciò che ho sempre pensato di poter ricevere, il massimo a cui aspirare. E, ammettiamolo, ho ricambiato a dovere queste attenzioni dispensando tanta felicità in piccole dosi, momenti di ebbrezza che solo la migliore simpamina forse avrebbe potuto superare. È stato il mio dono, la mia condanna divina: sono sempre stato la “botta” finale, il bang delle loro vite.
Dopo di me per molte è arrivata la famiglia, l’ordinarietà, la tranquilla serenità. Ma so che quando vorranno evadere da questo nugolo di convenzionalità penseranno a me, a quella “fase” di totale libertinaggio. Quando erano tra le mie braccia, mentre affondavo nei loro corpi, nella tenera licenziosità di scopate e cazzotti sapevo che mi era permessa ogni cosa. Lo leggevo nei loro occhi: avrebbero assecondato le perversioni più spinte se lo avessi voluto, cose che i loro bei mariti incravattati ora possono solo sognare. Erano figlie devote di un dio compassionevole e generoso.
Un dio che le ha amate una per una seppur nella fiamma violenta e caduca di una notte appena. Ma ora questo dio è morto, finito sulla croce, impalato e trafitto da una maddalena senza pietà che ha succhiato tutto il nettare della sua vitalità. Di quel dio è rimasto un uomo: ordinario, anonimo, moderato. Un povero cristo e -dio!- che pena a guardarlo! Ma questo omunculo ha qualcosa che non ha mai avuto: la felicità. E Dio, se è bello! Dio, se vale più del tepore di ogni altro orifizio. Quando le sue labbra si serrano su di me come posso non pensare che davvero Dio ci ama tutti?
Hank chiuse il pc e rimase qualche istante assorto con un’espressione inebetita sul volto. Accanto a sé aveva uno spesso bicchiere di scotch ancora mezzo pieno e una sigaretta rollata a mano, intatta. Si scolò il bicchiere e mise nel taschino la canna. Attorno a lui era il silenzio più totale, ma era un silenzio che gli parlava. Un silenzio in movimento: un’allegra confusione regnava sovrana tra abiti sgualciti, faldoni di documenti, testi universitari e poster adolescenziali.
Si guardò attorno con un misto di orgoglio e nostalgia, quindi inforcò il giubbotto come fosse una moto sportiva da montare. Con un gesto rapidissimo lo aveva inarcato sulle spalle e se lo era infilato a due braccia. Puntava ora alla porta lasciando dietro di sé una stanza piccola e variopinta, femminea, che non si addiceva allo studio di uno scrittore.
New York in quella calda estate era diversa dal solito. I platani che incorniciavano i viali sembravano palme e anche le persone erano meno contratte, più rilassate, come se la calura concedesse loro di venir meno, negli abiti leggeri e succinti e nei modi colloquiali, alla loro consueta formale indifferenza e frenesia. Hank le guardava passare e si sentiva vagamente leggero. Un gruppo di ragazze dagli short quasi inguinali gli sorrisero come colte da un’eccitazione ingiustificata. Erano giovani e fresche, sode in ogni muscolo, con dei sandali estivi dall’alto tacco che ne esaltavano le cosce tesissime.
Hank si voltò a guardarle ancora qualche istante e quasi inciampò in un idrante che non aveva senso stesse proprio lì. Ripreso l’equilibrio si accorse che qualcuno davanti a lui si era fermato. Era una ragazza alta e dalla bocca larga. I capelli castani finissimi inquadravano un volto dai tratti voluttuosi e dagli occhi chiari, grandi e profondi. Indossava una maglietta arcobaleno che il prosperoso seno le faceva a fatica ricadere all’altezza dell’ombelico, lasciandole scoperto un ventre tenero e accogliente.
Proprio quella maglietta suscitò in Hank un ricordo improvviso. “Heilà signorina dei roller blade!“, “Ciao, Hank“, fece lei con fare suadente. “Quale cattivo vento ti porta in queste terre assolate e desolate?“, riprese lui. “L’amore…“, sorrise lei complice. “Ah l’amore! L’amore“, -diceva Hank con tono parodisticamente solenne- “Come muove il sole e le stelle, l’amore… Più della fica!“. Lei rise, forse un po’ convenzionalmente. “So che anche tu sei qui per amore oltre che per lavoro“. “Eh già, sono riuscito a riconquistare Karen, la madre di mia figlia, e nulla mi legava più a Los Angeles, ormai. Sono tornato alla pura e semplice scrittura. Basta con le scopate e i cazzotti da film hollywodiani!“
“Sono felice per te, Hank“. “E i pattini dove li hai lasciati, mia dolce surfer girl?“. “Beh, sai com’è, a New York non sono proprio il massimo per muoversi“. Nel dire quelle parole, sorridendo maliziosa, riprese a camminare ed Hank la guardava andar via mentre il seno di lei ballonzolava allegro e ostinato, desideroso di sbucare fuori da quella asfissiante magliettina. “E per la cronaca, mi chiamo Hope!“.
Hank abbassò i neri occhiali da sole per ammirare il panorama. “Hope“, pensò. Quel nome gliene ricordava un altro, quello di un’angelica musa che, un tempo ormai lontano e nebuloso, aveva pensato perfino di poter amare e con cui costruire qualcosa di serio, per quanto serio potesse essere quello che faceva all’epoca. Ripensò alla capacità di Faith, quel biondo capolavoro della natura, nel farglielo drizzare e stimolare ogni sua terminazione nervosa. Era pura dopamina per il suo cervello e per la sua anima.
“Ca**o se mi sta venendo duro“, disse ad alta voce, mentre un’attempata vecchietta si allontanava inorridita da quell’estemporanea e folle affermazione. “Perdoni la volgarità, signora! Non dicevo a Lei, non che non sia attraente eh! Da giovane doveva essere davvero un piacere per gli occhi“. Hank continuava a camminare senza meta finché come un’oasi nel deserto di quella New York californiana non vide un pub. Ci si ficcò come un ca**o nell’umida fi*a di una ventenne. Ma la festa sembrava iniziata senza di lui.
“Fuori di qui, ca**one!”, urlava un energumeno mentre quella che pareva una bianca palla da bowling sotto un abito spiegazzato rotolava fuori dal locale. “Hey, motherfucker!“, urlò Hank che come un birillo era stato urtato da quell’essere. “Scusi“, disse, incerta, di rimando la palla da bowling. Hank strabuzzò gli occhi. “Non posso crederci: zucca pelata!“. Charlie, ricompostosi alla bell’e meglio, spalancò la bocca paralizzato. “Chiudi quella boccaccia se non vuoi che ti ci ficchi il mio ca**o e abbracciami, motherfucker!“. Runkle si precipitò sull’amico quasi salendogli in spalla. “Hey, buono, zuccapelata, buono! Altrimenti vieni subito“.
“Haaaank!“, fece incredulo quello, con la solita voce ridicola. “Stavo proprio per chiamarti, che fai a quest’ora, qui?“. “Ah niente, una camminata. Ma dimmi: dov’è quel piccolo bon bon dell’amore di tua moglie?“. “Marcy? È in hotel, non hai parlato con Karen? Stasera abbiamo una cena tutti insieme da te, i quattro amigos come i vecchi tempi!“. “Ah era ora che il mio agente si decidesse a concedermi una serata“, disse Hank fintamente permaloso. “Eddai, Hank, la tua carriera va una bomba. L’ultimo libro è stato un successo e non devo fare praticamente nulla per sponsorizzarti“.
“Bene, mi chiedo allora cosa ti pago a fare“. Runkle lo guardò come un cucciolo inclinando la testa con sguardo supplichevole. “Dai che scherzo, zuccapelata! So che anche a te le cose non vanno male eh?“. “Non malaccio, non malaccio. Il libro di Steve, ‘Il maggiordomo del Rock’, è stato un successo, lo sai“. “E lo so sì, ha affossato anche il mio romanzo“. “Punti di vista, Hank. Punti di vista“. “Runkle, birretta? O nel tuo caso un bel drink da casalinga newyorkese?“. “Mi piacerebbe, Hank ma devo scappare, ho un incontro con la AMC per una nuova serie sul romanzo di Steve“. “Ci risiamo“. “Sì, ma aspetta, Hank! Perché a quanto pare il network è interessato anche a te, una miniserie sul tuo romanzo! Non è fantastico?“.
“Ah no, Rankuccio, io ho detto basta con la tv. Per me solo libri! Carta! Incontri con i lettori! Depressione per i risultati delle vendite! Tentativi di suicidio!“. “Ho capito, Hank. Ho capito. Allora ci vediamo stasera, non fare scherzi eh?“. “Ma quali scherzi, a stasera bello il mio pelatone! Ma perché ti hanno cacciato poco fa?“. “Lunga storia, Hank, lunga storia! Non dire niente a Marcy di questo, ok?“. Prima che Hank potesse rispondere Charlie si era già allontanato come un leprotto e aveva imboccato un taxi con un salto improvviso. “Motherfucker!“, pensò tra sé Hank mentre già riguadagnava la strada di casa.
Aprì la porta e un’odore di felicità gli si spalancò davanti. Era l’odore di un tempo passato, che aveva perduto e ora finalmente ritrovato. Era l’odore del calore familiare, di pasti caldi e genuini, di bambini che scorrazzano seminando il caos. “Hank!“, urlò una voce non troppo distante. “Sono io“, disse di rimando. Mentre si toglieva le scarpe e avanzava verso il salone Hank rivedeva come in slow motion istantanee di momenti passati, di abbracci, scherzi, complicità e sorrisi.
“Spero tu non abbia mangiato nulla, ti uccido se hai mangiato qualcosa! Sono due ore che cucino e non sono tanto sicura che questa ricetta sia scritta nella nostra lingua, per non parlare del forno che si spegne e riaccende di continuo e non avevamo la salsa così ho dovuto chiederla al vicino e sai quanto odi andare da Benjamin, quello si comporta sempre in modo strano ogni volta che mi vede e…“, Hank la baciò, interrompendo quel logorroico e isterico monologo. Lei sorrise come sapeva sorridere solo lei, con quella luce che le illuminava tutto il volto.
“Quante ragazzine hai guardato oggi?“, fece lei in un misto di provocazione e complicità. “Meno di ieri, Karen, meno di ieri!“, rispose lui in tono solenne. “Facciamo che ci credo. Ah, ha chiamato TUA figlia. Dice di non entrare più nella sua stanza. Le lasci sempre un odore strano“. “E che le importa? Tanto non ci viene a trovare quasi mai! Tutta colpa di quello zuccone di suo marito, non mi è mai piaciuto“. “Hank…“, disse Karen come una mamma che rimbrotta dolcemente suo figlio.
Hank andò da lei. “Ti amo“. “Ti amo anch’io“. Si abbracciarono mentre l’arrosto faceva fumo suscitando lo sconforto improvviso di Karen e il divertimento di Hank che già aveva impugnato il telefono per prenotare da Le Bernardin una cenetta per quattro. Le immagini di Hank e Karen si trasformano in foto, in filmati ricordo, memorie di una felicità che non li avrebbe più lasciati tra immense litigate, scopate, qualche cazzotto e crisi di pianto ma sempre nella ferma e irreversibile certezza di un amore che come un razzo bruciava senza mai estinguersi. Non più.
And I think it’s gonna be a long long time ‘Til touchdown brings me ‘round again to find
I’m not the man they think I am at home
Oh, no, no, no
I’m a rocket man
Rocket man, burning out his fuse up here alone