Behind The Series è la rubrica di Hall of Series in cui vi raccontiamo tutto quel che c’è dietro le nostre serie tv preferite. Sul piano tecnico, registico, intimistico, talvolta filosofico. Stavolta in Behind The Series si parla di The Handmaid’s Tale, la serie distopica di Hulu ambientata in una teocrazia da incubo in cui le donne sono trattate alla stregua di animali da riproduzione. Analizzeremo in particolare il processo di elaborazione del dolore e della rabbia del sopravvissuto a cui abbiamo assistito in questa quarta, magistrale stagione appena conclusa.
Si arriva a un punto in cui dissertare di dolore diventa insensato: nessuno sa che può esistere un dolore di quelle dimensioni. Nessuno: è come essere posseduto dai demoni. The Handmaid’s Tale, in questa magnifica quarta stagione appena conclusa, ci regala una poderosa dissertazione sul dolore che non indulge al pietismo, non si sofferma su particolari scabrosi ma traccia un’anatomia del sopravvissuto inedita e coraggiosa.
Dopo un avvio di stagione che ci aveva fatto preoccupare che potesse nuovamente ripetersi lo stesso schema che avevamo già visto diverse volte (June tenta di scappare, viene catturata e subisce torture sempre più feroci), la serie prende coraggio e vira verso un porto per niente sicuro: il Canada, nel quale June giunge da donna libera.
Quello che le favole non raccontano accade dopo, tutto nella testa di questa donna: e cosa sono le distopie, se non favole dal carattere decisamente troppo accentuato?
June esce dall’arena e mette piede sul suolo canadese (quanto amiamo i primi piani di The Hadmaid’s Tale, quanto amiamo la non-bellezza di Elizabeth Moss) da donna libera: ma è solo una formalità, un timbro su un foglio, un sigillo nell’abbraccio col marito, dopo sette anni separati. Così come a Gilead non erano bastate le cuffiette bianche, i vestiti rossi, le botte, gli stupri e la sottomissione per piegarla e renderla schiava, così ora in Canada non basta uno status a renderla davvero libera.
L’ex ancella scopre che la vera prigione è dentro di lei: a rendere ancora più spesse le maglie della rete che la imprigiona è la consapevolezza di trovarsi a pochi passi dai suoi aguzzini, i coniugi Waterford, che sono imprigionati in attesa di un processo. La quarta stagione di The Handmaid’s Tale, se vogliamo schematizzare, è una serie di insiemi e sotto insiemi di gabbie, più grandi e più piccole, alcune intersecate tra loro in un angoscioso abbraccio.
June è libera sulla carta ma schiava dei ricordi e del senso di colpa: varcando il confine canadese ha detto addio a ogni speranza di riprendersi sua figlia Hanna, che ormai non la riconosce più. I Waterford sono in carcere ma la loro mente è proiettata verso il futuro come chi sa che la propria partita non è finita. Le altre ex ancelle arrancano, provano a ricostruirsi una vita ma un pezzo di loro resterà sempre a Gilead: e per molte questo non è affatto solo un triste eufemismo.
Appoggiare quel piede in terra canadese sposta June da un contenitore sociale a un altro, non necessariamente meno minaccioso. The Handmaid’s Tale affronta i tre ingredienti immancabili nella psiche del sopravvissuto, ancora prima di mostrarci le vicissitudini di June in Canada. Il primo ingrediente è il veleno dell’anima per eccellenza: il senso di colpa.
Senso di colpa
Mentre si trova ancora a Gilead, June comincia a essere divorata da un sentimento che avvelena lentamente l’anima, lasciandola appassire: il senso di colpa. Il pensiero fisso della figlia Hanna, rimasta l’unico legame con lo stato distopico e diventata ormai la sua ragione di vita la fa marcire dentro, rendendola sempre più spregiudicata e senza scrupoli. L’ancella è disposta a sacrificare chiunque per potersi avvicinare un passo in più alla figlia perduta: lo dimostra il rapporto indissolubile e tossico che crea con Janine.
L’ancella con un occhio solo, vero manifesto di resilienza in The Hadmaid’s Tale, diventa uno strumento nelle mani di June, che la manovra e la tiene con sé per portare avanti il suo piano: distruggere Gilead a testa bassa, come un toro nell’arena ormai pazzo di dolore. Sebbene consapevole di quanto questo rapporto sia sbilanciato, Janine non riesce a staccarsi da June, che è ormai la stampella emotiva che la tiene ancorata alla sanità mentale. Quando si ritroverà nuovamente sola, lasciata indietro proprio dall’amica, pur di non perdersi si legherà nuovamente al rapporto tossico per eccellenza, quello con la sua aguzzina Zia Lydia, per poi stipulare una singolare alleanza con la nuova arrivata Esther.
Anche Moira, la migliore amica di June, prova il senso di colpa per non averla salvata quando poteva, per non aver fatto di più e anche suo marito Luke: June tiene legati a sé i suoi affetti attraverso il senso di colpa reciproco. Tutti i personaggi si agitano in preda agli spasmi del rimorso, di quella frase “perché non ci hai provato di più?” che da anni tormenta June e, in modo diverso, anche le altre persone della sua vita.
Il rimorso, quando alberga nell’anima, la fa marcire: i suoi effluvi ubriacano la mente diventando un ritornello assordante che conduce alla follia. Giunta in Canada, le prime parole che June rivolge a Luke sono un’esalazione di senso di colpa dritta nel cuore di quell’uomo così gentile, premuroso e drammaticamente inconsapevole.
“Scusa se non l’ho portata con me. Scusa se sono solo io”.
Il sentimento corrosivo rimbalza da sopravvissuta a sopravvissuta come un fardello incandescente: diventa così pervasivo nella vita di ognuna di loro da renderle insensibili, perché il senso di colpa altrui cancella il loro. Nessuna delle ancelle prova pena per il suicidio dell’ex zia scappata in Canada: ognuna di loro proietta su di lei il proprio senso di colpa, finendo per auto assolversi.
La prima stazione della via crucis del sopravvissuto in The Handmaid’s Tale prevede il senso di colpa, che diventa un pretesto per sopravvivere e non indulgere nella dissertazione del dolore. Quando l’idea dell’espiazione di una colpa si impianta nel cervello, l’ossessione ne è la naturale conseguenza: per sradicarlo siamo disposti a tutto. Anche a far provare agli altri lo stesso dolore che abbiamo provato noi.
Dolore
Il cuore di una donna ferita è indebolito dalle cicatrici, la sua mente è una scatola in cui rimbombano solo le grida dell’anima che implora: mai più. June Osborn non sarà mai più un’ancella ma non sarà neanche una moglie e una madre, come vorrebbe e come desiderano tutti coloro che la riabbracciano e la accolgono nella sua nuova gabbia canadese. L’inferno che ha lasciato sulla sua pelle segni indelebili continua a divampare all’interno della sua mente e la renderà sorda a ogni richiamo di normalità.
La sua nuova vita in Canada la accoglie sotto il segno delle braccia familiari e rassicuranti di Luke, il marito fedele che ha cresciuto una figlia non sua, di Moira che l’ha aiutato e si è battuta in prima persona a fianco dei profughi, di Emily che è una presenza costante e forte nella vita delle sopravvissute. Ma per June questo cambio di prospettiva sposta solo il suo corpo ferito da una gabbia all’altra, la sua mente violata da una prigione desolata a una dorata. L’incapacità di abituarsi nuovamente alla normalità è un comportamento classico nelle persone che, come lei, hanno subito stress continui, abusi fisici e psicologici, sono stati sottoposti a torture e hanno vissuto in situazioni in cui la loro mente ha dovuto piegarsi, adattarsi per sopravvivere.
Che termine terribile, carico di implacabile rassegnazione camuffata da rassicurazione: adattarsi. Ci si adatta per sopravvivere, per mantenere i propri valori vitali al di sopra del livello di pericolo, ci si adatta per non morire, per continuare a respirare, a nutrirsi. Vivere è tutta un’altra cosa: per vivere non basta adattarsi. June non è una che si adatta facilmente: ma Gilead ha plasmato la sua mente a un livello tale che anche lei, l’angelo vendicatore delle ancelle, ha dovuto cedere qualcosa per non cadere in pezzi. June si adatta alla nuova vita in Canada come, negli anni, si è adattata a Gilead: facendosi portare in giro, studiando il nuovo ambiente, esponendosi il meno possibile fino a quando non ha ben chiara la situazione.
Si comporta come un animale cresciuto in cattività e rilasciato in una foresta: una parte di lei reclama quella gabbia che le ha tolto tanto ma le ha dato comunque un angolo nel quale rannicchiarsi. A Gilead June aveva chiaro il suo compito: stare in silenzio, fare la spesa, tenere gli occhi bassi, compiacere il comandante, lasciarsi violentare, concepire, morire in qualche colonia senza aver mosso un dito. Lì, in Canada, ogni giorno è una sfida: il confronto con i suoi aguzzini concede a chi è ancora ignaro della portata del suo dolore (non solo il marito Luke ma Tuello, il paese che l’ha accolta, il mondo intero) lo sguardo a un solo centimetro della sua pelle straziata.
June reclama il controllo, brama la libertà conquistata e, proprio come un animale liberato dalla cattività, si ricorda di avere ancora le unghie per graffiare e i denti per mordere. Il suo primo atto di riaffermazione di sé è un rapporto sessuale con il marito in cui sembra proprio che gli equilibri di potere siano decisamente spostati verso l’elemento femminile, che domina un uomo spaesato, per una volta inerme. Uno stupro, in un certo senso, perpetrato per ristabilire una gerarchia affettiva, sentimentale ed erotica ormai deviata nella mente dell’ex ancella: ogni atto diventa una conseguenza del suo dolore e del suo senso di colpa, che la spingono a ripagare tutti con la stessa moneta.
Una donna violata, com’è June e come sono le ancelle che partecipano alle sedute di auto-aiuto tenute da una imbarazzata Moira, che si improvvisa terapista, può avere anche la mente sconvolta dagli abusi. Una mente che si adatta alla sofferenza per non ripiegarsi su se stessa e che trova conforto e sfogo nel mostrare artigli e denti. June cavalca la sofferenza delle ex ancelle con un compiaciuto cinismo: difficile dire se la sua sia reale empatia e desiderio di aiutarle o stia cavalcando un’emozione che può spingerle a fare quello che lei in segreto brama.
Non si tratta più solo di chiedere giustizia: The Handmaid’s Tale ci mostra i compromessi ai quali la giustizia deve piegarsi per poter trionfare, il volto sconosciuto e scomodo di tutti i processi ai grandi mostri della storia. Do ut des: i coniugi Waterford diventano la moneta di scambio del governo canadese per ottenere informazioni su Gilead e cominciano a respirare la libertà, forti di essere loro, ancora una volta, ad avere il coltello dalla parte del manico. Un compromesso difficile da digerire per le vittime, che oltrepassano la stazione del dolore con il fardello più pesante di tutti perché non è mansueto, ma grida e scalcia e fa di tutto per sbilanciare colei che lo porta: la rabbia.
Rabbia
Se il senso di colpa e il dolore sono sentimenti che spingono la vittima a chiudersi in se stessa, niente come la rabbia chiede e pretende un confronto con l’altro. Si tratta della più estroversa delle emozioni umane, non a caso considerata un peccato capitale nella sua accezione più nobile, l’ira. La rabbia ne è la declinazione forse più bassa ma non per questo meno feroce, anzi: è con il termine “rabbia” che identifichiamo la furia animale, spesso patologica.
June e le altre ancelle sono preda a una rabbia cieca e incontrollabile: l’ex ancella ha già sperimentato come proiettare le sue emozioni al di fuori di sé l’abbia portata a sentirsi potente, superiore, padrona del suo corpo. La violenza ai danni del marito non porta a sensi di colpa ma a un liberatorio orgasmo: è il segnale che il tracciato delle emozioni di June è ormai deviato, piegato e adattato da anni di soprusi e sofferenze.
Proiettare quella sofferenza e quel senso di colpa fuori di sé non porterà June verso il suo obiettivo, che è sempre stato quello di riavere sua figlia. Ma The Handmaid’s Tale ci stupisce e ci regala un colpo di scena in sordina, che avviene mascherato da semplice conversazione sulle scale di casa tra June ed Emily. E se il vero obiettivo dell’ex ancella non fosse più sua figlia o la giustizia, ma solo la vendetta?
“Il giusto si rallegrerà nel vedere la vendetta, si laverà i piedi nel sangue dell’empio”.
L’ancella che più di tutte aveva ispirato June nella sua battaglia di resistenza, Emily, le suggerisce come proiettare quelle emozioni fuori di sé, come sostituire la frustrazione per non avere più uno scopo nella vita con la rabbiosa soddisfazione di sguazzare nel sangue dei nemici. La vendetta di June e delle donne liberate da Gilead ai danni del comandante Fred Waterford rispecchia esteticamente e intrinsecamente i valori della teocrazia. Il cerchio perfetto di donne che si chiude in una morsa contro il peccatore ricorda le purghe di Gilead, non a caso denominate Rigenerazioni.
Da questo bagno di sangue nasce una nuova donna, solo apparentemente libera dal suo passato e dalla sua sofferenza. Non è tanto l’ultimo scambio con il marito a confermarci quanto June sia cambiata, quanto abbia barattato il suo percorso di redenzione con il gioioso ed efferato piacere di una notte, ma l’ultima conversazione avuta con Fred Waterford e, ancora prima, lo scambio di ruoli con Serena Joy.
Il comandante, che continua a chiamare June con il suo non-nome, Offred, esercita ancora sulla donna il potere oscuro della soggezione: un potere a cui lei si presta e si concede, non è chiaro fino a che punto in maniera consapevole. June sfoggia le armi della seduzione con il suo ex comandante ma gli fa una confidenza che fa capire fino a che punto Gilead sia entrata dentro di lei. Gli confida di rimpiangere la sua vecchia identità di ancella, di Offred, perché lei aveva uno scopo.
Offred aveva un motivo per vivere, per andare avanti a testa bassa, nonostante le ferite inflitte nell’arena. June Osborn, la nuova June, non ha alcun motivo per vivere se non la vendetta. Rinunciare alla sua vita, alla parvenza di vita che si stava costruendo in Canada, con il marito amorevolmente inconsapevole, ne è una naturale conseguenza. Rinunciare alle sue figlie, perse per non essersi impegnata abbastanza, nelle due diverse ma ugualmente dolorose declinazioni di questa espressione, è l’ultimo gesto d’amore che può fare per loro.
Con Serena l’ex ancella sceglie di giocare la sua ultima partita attraverso i simboli: da sempre in The Handmaid’s Tale colori, musica e armonie visive sono una parte imprescindibile della drammaturgia. June si presenta a Serena con un vestito che ricorda il punto di verde di quello delle Mogli, con la pettinatura iconica che contraddistingue quel ruolo sociale e, soprattutto, con l’attitudine di chi vuole invertire i ruoli. Rivivendo una scena per lei simbolo di dolore e umiliazione e ribaltandone completamente gli schemi, June si emancipa dal suo ruolo di vittima e veste i panni dell’aguzzina.
June è ormai persa sulla via della vendetta e dell’appagamento del suo desiderio di esternazione dell’immenso, incomprensibile dolore che ha dentro. Vedremo nella prossima stagione di The Handmaid’s Tale dove questa strada la condurrà. Una serie che ha parlato a tantissime donne, toccandole dove molte sentono ancora dolore, ha dimostrato di sapere come non essere banale e mostrare anche l’altra faccia delle sopravvissute.
Non c’è solo la vittima che piange e che chiede giustizia: c’è anche la vittima che grida vendetta. La donna arrabbiata non è meno violata di quella che ha perso ogni emozione: gridare forte non riempie di più lo spazio di un silenzio ostinato. In una società in cui ancora, troppo spesso, le reazioni delle vittime vengono analizzate e dissezionate e la loro vita viene scandagliata per trovare un segnale che vanifichi la loro sofferenza, The Handmaid’s Tale è un grido di accettazione del dolore e delle reazioni a esso.
Una dissertazione sul dolore che non indulge nemmeno nella santificazione dell’eroina, mai come in questa stagione mostrata nelle sue contraddizioni e nei suoi lati più oscuri. La quarta stagione di The Handmaid’s Tale ci porta sempre più in fondo nell’esplorazione degli abissi della psiche umana, in particolare femminile: non a caso sul finale torna anche la voce interiore di June, per troppi episodi dimenticata e relegata in un angolo. Forse ci sta dicendo che c’è ancora qualcuno che pensa, che prova sentimenti, nel guscio vuoto che pare essere diventata. Che i primi piani, mai come in questa stagione così presenti e così capaci di riempire lo schermo, non si affacciano su un abisso sconfinato.
June è ancora viva, presente a se stessa nella sua sofferenza e nel suo percorso: forse la guarigione verrà proprio da questo instancabile impulso a lottare che la caratterizza. Il messaggio di The Handmaid’s Tale alle sopravvissute è proprio questo: smettere di lottare è peggio che morire, smettere di lottare è adattarsi. La vendetta, la rabbia, il dolore e il rimorso sono segnali che siamo ancora vive, nonostante tutto. Ed è proprio in questo avverbio che sta la forza d’animo di tante donne di cui, ancora una volta, The Handmaid’s Tale è stata la voce.