Ogni narrazione è un percorso, una strada che ci accompagna attraverso luoghi nuovi e inesplorati. Fruirne è come viaggiare: all’immobilità fisica contrapponiamo un moto immaginativo. Non c’è in fondo molta differenza tra chi viaggia e chi si mette di fronte a una storia: ci sarà chi ha più l’attitudine del viandante, chi del pellegrino, chi dell’esploratore, ma poco cambia. Ogni volta che ci troviamo dentro a una narrazione nuova, dunque, che sia letteraria, filmica o seriale, ci stiamo incamminando lungo un sentiero sconosciuto e non sappiamo cosa ci attenda. Seguendo il paragone, l’elemento che più si lega al nostro ruolo di spettatori è il bivio. O meglio, la potenzialità del bivio. In questo concetto risiede il nostro più grande potere di fruitori: noi siamo sì, in parte, passivi nell’esperire quella storia, ma siamo attivi nell‘immaginarne possibili deviazioni. Con le serie questo poi capita spesso: finisce un episodio sul più bello e noi ci chiediamo, almeno fino alla visione di quello successivo, quale possibile strada prenderà la storia, a quale opzione cederà la narrazione. Quando poi scopriamo cosa accade, ecco che una delle strade che ci si erano prospettate nella mente viene come sbarrata da un muro. Talvolta non ce ne rendiamo nemmeno conto, ma altre non riusciamo a togliercelo dalla testa: eccolo lì a privarci del diritto di intraprendere quella strada, di scoprire quel mondo, di dare quel senso alla storia. É in momenti come questo che si fa largo in noi il rimpianto per quello che sarebbe potuto essere e non sarà. Andiamo avanti – viandanti, pellegrini o esploratori – lungo la via di quel racconto, ma nella testa torna spesso un pensiero, un’immagine: il Muro del Rimpianto.
Creare un universo in cui chiunque si possa rifugiare e possa trovare riparo dal mondo esterno è più difficile di quanto si pensi, ma Cassandra Clare, autrice dell’indimenticabile saga di Shadowhunters – The Mortal Instruments, con i suoi romanzi ci è riuscita alla grande. L’urban fantasy fa sempre più gola, perché permette di rendere attuali e in qualche modo più realistiche le caratteristiche principali proprie di ciò che è fantastico. Magia, creature mitologiche e poteri ancestrali. Ogni cosa ha il proprio posto nel mondo. Un mondo che, a quanto pare, risulta essere davvero vicino, anche se nascosto agli occhi indiscreti e sospetti dei mortali.
Attualizzare i riferimenti biblici su angeli e demoni e far sì che questi possano avere nuova vita (anche se in modo diverso) nell’epoca contemporanea è una cosa che molti hanno tentato di fare, soprattutto negli ultimi anni. Dare quindi una vera consistenza ai personaggi nati dalla mente di una scrittrice di talento come la Clare, senza stravolgere il loro vero essere, non è impresa da poco e, purtroppo, in questo la serie tv Shadowhunters: The Mortal Instruments (2016-2019) ha fallito miseramente. Freeform ha sprecato un’ottima occasione per un prodotto di qualità che potesse essere all’altezza del suo originale cartaceo, e che potesse regalare una vera soddisfazione agli appassionati della saga e a quanti si sarebbero ritrovati a vedere gli episodi senza conoscere la trama.
Se il film, Shadowhunters – Città di ossa, uscito nelle sale cinematografiche nel 2013 aveva saputo dare credibilità alla storia e pienezza ai personaggi, rimanendo piuttosto fedele alla fantasia di Cassandra Clare, la serie tv ha distrutto quasi definitivamente il legame con la vicenda originale, puntando solo sulla spettacolarità e dimenticando tutti quei dettagli che permettevano allo spettatore di entrare a fondo nel mondo dei Nephilim. Mitologia, leggende, tradizioni legate alla progenie angelica e a quella demoniaca sono state trattate come semplici favole prive di radici profonde, utili solo per giustificare l’utilizzo di azione ed effetti speciali (spesso scadenti) pensati per rendere più appetibili le scene di combattimento.
La serie tv con protagonisti Clary Fairchild (Katherine McNamara), Jace Herondale (Dominic Sherwood), Simon Lewis (Alberto Rosende), Isabelle (Emeraude Toubia) e Alec Lightwood (Matthew Daddario) ha subito la fine che meritava, ed è stata miseramente cancellata dopo la fine della terza stagione, segno definitivo del suo fallimento. Il canale via cavo che ha prodotto Shadowhunters non ha saputo sfruttare le infinite potenzialità offerte dall’universo fantastico della Clare, e non è stato in grado di rendere memorabili i personaggi e le battaglie che essi combattono quotidianamente contro l’oscurità.
Sono davvero pochi i personaggi a cui questa serie riesce a dare spessore, un po’ per colpa degli interpreti che ne vestono i panni, un po’ per evidenti difetti di sceneggiatura.
La mancata espressività di personaggi essenziali come Clary e Jace, dovuta alla mediocre interpretazione di Katherine McNamara e di Dominic Sherwood, fa perdere molti punti agli episodi di questo urban fantasy, soprattutto perché è da loro e dalla loro storia d’amore travagliata che i romanzi traggono gran parte della propria forza. Ciò che nei libri è stato descritto come un affetto capace di trascendere le forze del male e del bene e quelle della luce e dell’oscurità, in Shadowhunters: The Mortal Instruments si è trasformato in una banale relazione. Non c’è l’ombra di pathos nel loro rapporto, e questo finisce per dare vita a scene forzate, prive della naturalezza che dovrebbe caratterizzare un sentimento di tale intensità. La sofferenza e la passione bruciante che dovrebbe legarli non è nemmeno lontanamente tangibile.
L’unico briciolo di soddisfazione (poi nemmeno così tanto), questa serie tv ce lo ha dato con Magnus Bane e Alec Lightwood, interpretati rispettivamente da Harry Shum Jr. (nel film dal compianto Godfrey Gao) e Matthew Daddario, di cui però ha modificato gran parte della storyline. Perfino il complesso e sfumato rapporto tra Clary e Jonathan viene dipinto come un gioco infantile, come uno sciocco tira e molla tra fratelli che non ha niente da spartire con il doloroso e intenso legame che li unisce davvero. Clarissa Fray non sembra avere alcuna profondità psicologica e pare che agisca mossa solo da orgoglio e immotivata testardaggine.
Purtroppo, in alcuni casi non si può prescindere dal fare paragoni con il modello di riferimento di una serie tv, soprattutto quando si tratta di trame fantasy che, nella stragrande maggioranza dei casi, devono la loro esistenza e la loro essenza ai libri da cui sono tratte. Quando si ha alle spalle un universo infinito di storie e particolari da rappresentare, e si ha a disposizione un formato come quello della serialità televisiva, che offre opportunità potenzialmente sterminate per dare consistenza alle fantasie di migliaia di lettori, non ci si può permettere di sbagliare.
E invece Shadowhunters ha tradito le nostre aspettative, rovinando l’immagine del Mondo Invisibile ideato da Cassandra Clare.
Scene piene di inseguimenti vogliono rendere questa serie un prodotto d’azione carico di suspense e invece finiscono per essere girate in modo approssimativo, lento e poco realistico, attraverso cambi di inquadrature confusionari e a volte talmente repentini da lasciarci spiazzati, incapaci di seguire al meglio con lo sguardo i combattimenti e il loro andamento.
Affinché un fantasy possa risultare credibile non bastano gli effetti speciali. Occorre percepire elementi di realtà che rendono, in opposizione, la magia che li circonda tangibile e concreta e, in questo, Shadowhunters ha fallito. Non è bastato attualizzare l’Istituto rendendolo un quartier generale ipertecnologico e computerizzato e popolandolo di anonimi Nephilim che non sarebbero dovuti esistere anzi, ciò ha semmai contribuito a penalizzare l’esperienza di Freeform. L’antichità e la maestosità dell’Istituto di New York sono state dimenticate e considerate “obsolete”. Questi elementi non hanno permesso la completa sospensione dell’incredulità da parte dello spettatore, che non ha potuto ignorare le incongruenze e le continue imprecisioni della storia riprodotta sullo schermo e non è riuscito a godersi davvero la serie.
Così, l’immenso contenuto di sette romanzi viene costretto ad adattarsi a 55 episodi, che non riescono però a restituirne lo spessore.
Da fantasy speciale a comune teen drama il passo sembra essere stato fin troppo breve per Shadowhunters che, prendendo qua e là elementi random dai sette libri, li ha uniti caoticamente, sperando di restituire al pubblico la stessa bellezza e la stessa forma dell’originale cartaceo, ma invano. Non è possibile frenare l’indignazione di chi ha letto i volumi della saga. Non finiremo mai di rimpiangere tutto ciò che ci hanno tolto con la produzione di questa banale serie tv. Ci hanno abbindolato con mille promesse e ci hanno lasciato con il vuoto in mano.
Delle vere ombre contro cui combattono i protagonisti dei romanzi non rimane altro che una flebile traccia, una piccola eco che non sa spingersi più a fondo e non sa indagare i tormenti di uomini e donne in lotta continua con se stessi e con il mondo che li circonda, capace di identificarsi solo nel dualismo bene/male. Ma le sfumature dell’animo umano si presentano con tutta la loro prepotenza e chiedono di essere ascoltate da chi non conosce altri colori. Sono infinite e quelle dei Nephilim e delle creature della notte lo sono ancora di più. Ognuno ha una storia da raccontare e un colore che gli appartiene, ma in questa serie tv nessuno sembra essere disposto ad ascoltare davvero.
Non ci resta altro che il rimpianto per ciò che poteva essere e per ciò che non è stato, per tutto quello che avremmo voluto vedere e che invece non potremo più trovare, se non tuffandoci ancora una volta nella lettura della saga di The Mortal Instruments. Un vero peccato e un’occasione sprecata per la creazione di un fantasy che valesse davvero la pena definire tale.