ATTENZIONE: l’articolo potrebbe contenere spoiler su Westworld.
Ogni narrazione è un percorso, una strada che ci accompagna attraverso luoghi nuovi e inesplorati. Fruirne è come viaggiare: all’immobilità fisica contrapponiamo un moto immaginativo. Non c’è in fondo molta differenza tra chi viaggia e chi si mette di fronte a una storia: ci sarà chi ha più l’attitudine del viandante, chi del pellegrino, chi dell’esploratore, ma poco cambia. Ogni volta che ci troviamo dentro a una narrazione nuova, dunque, che sia letteraria, filmica o seriale, ci stiamo incamminando lungo un sentiero sconosciuto e non sappiamo cosa ci attenda. Seguendo il paragone, l’elemento che più si lega al nostro ruolo di spettatori è il bivio. O meglio, la potenzialità del bivio. In questo concetto risiede il nostro più grande potere di fruitori: noi siamo sì, in parte, passivi nell’esperire quella storia, ma siamo attivi nell‘immaginarne possibili deviazioni. Con le serie questo poi capita spesso: finisce un episodio sul più bello e noi ci chiediamo, almeno fino alla visione di quello successivo, quale possibile strada prenderà la storia, a quale opzione cederà la narrazione. Quando poi scopriamo cosa accade, ecco che una delle strade che ci si erano prospettate nella mente viene come sbarrata da un muro. Talvolta non ce ne rendiamo nemmeno conto, ma altre non riusciamo a togliercelo dalla testa: eccolo lì a privarci del diritto di intraprendere quella strada, di scoprire quel mondo, di dare quel senso alla storia. É in momenti come questo che si fa largo in noi il rimpianto per quello che sarebbe potuto essere e non sarà. Andiamo avanti – viandanti, pellegrini o esploratori – lungo la via di quel racconto, ma nella testa torna spesso un pensiero, un’immagine: il Muro del Rimpianto.
Le gioie violente hanno violenta fine.
William Shakespeare è stato un’ispirazione per tanti autori: abbiamo ritrovato il dramma di Amleto in Sons of Anarchy, così come la discesa nell’oscurità di Macbeth nella parabola di Walter White. Ma in Westworld le parole del Bardo non sono solo fonte di ispirazione, ma un vero e proprio monito. Una poetica e cupa predizione di un finale di stagione memorabile, così come di un destino infelice per uno show che, ahimé, non è stato più lo stesso dopo il suo primo perfetto capitolo. Ma facciamo un passo indietro.
Nel 2014, Jonathan Nolan e Lisa Joy iniziano a collaborare con HBO per produrre un riadattamento de “Il mondo dei robot” di Michael Crichton, un’idea che si rivelerà vincente. La sinergia fra marito e moglie porterà infatti alla creazione di uno dei prodotti d’elite migliori degli ultimi anni. Una serie strabiliante, capace di destare la meraviglia degli spettatori grazie al contrasto fra ambientazioni western e tecnologie moderne, fra entusiasmanti momenti di azione e altri di emozionante introspezione. Realtà opposte, ma necessarie l’una all’altra, per forgiare una storia che ci parla della ribellione della razza robotica, ma ancor di più dell’origine della coscienza e del significato dell’esistenza. Difatti, Westworld ci mette di fronte a bivi morali di grande importanza, spingendoci a riflettere su ciò che ci rende umani. Ma soprattutto su quanto la linea che divide gli ospiti (l’umanità) dagli host (la sua creazione) sia incredibilmente sottile.
Il ritratto dell’umanità in Westworld è crudo e diretto.
In un futuro non troppo distante, gli esseri umani sono riusciti a creare tecnologie meravigliose ma non a disfarsi della loro tipica violenza, accompagnata quasi sempre da un senso di superiorità nei confronti delle proprie creazioni. Gli androidi infatti sono considerati come oggetti, un mezzo sul quale sfogare le proprie fantasie e le proprie perversioni. Ed è qui che sta uno dei punti chiave dello show: pur notando la sofferenza degli androidi, gli esseri umani scelgono comunque di essere crudeli. Scelgono di liberare i propri istinti primordiali nel parco, in quel mondo in cui le loro azioni non hanno conseguenze. D’altronde, è tutto finto. Ma quanta finzione ci può essere nello stupro di una ragazza indifesa, incapace di reagire perché programmata per non ferire nessuno? Grazie all’esperienza del parco, gli esseri umani vengono testati non solo dalla Delos ma anche dagli spettatori, che finiscono per confrontarsi con se stessi e con un’inevitabile domanda: “Se ci venisse data l’occasione, cederemmo anche noi ai nostri istinti più violenti?“
La risposta parrebbe scontata, eppure un quesito del genere non può essere risolto con facilità e immediatezza. Basti pensare a William/l’Uomo in Nero (rispettivamente Jimmi Simpson ed Ed Harris): durante la sua prima visita al parco ci viene presentato come gentile, comprensivo, amorevole. Non farebbe mai del male agli host, dimostrando così una bontà che alla fine della terza stagione scopriremo essere stata determinante per la rivoluzione avviata da Dolores (Evan Rachel Wood). Ma una volta messo di fronte all’illusione del parco, William lascerà il posto all’Uomo in Nero, simbolo dell’oscurità che si cela nel nostro cuore, di quella corruzione che talvolta può macchiare anche l’animo più nobile.
Lo show HBO, tuttavia, non ci vuole parlare solo della complessità dell’essere umano, ma anche delle incredibili sfumature della sua creazione, rappresentata principalmente da Dolores e Maeve (Thandie Newton).
Le due androidi saranno le prime a raggiungere la presa di coscienza, intraprendendo un percorso che le porterà all’autoconsapevolezza e all’emancipazione. Il Labirinto ideato da Arnold (Jeffrey Wright) è infatti un viaggio nella mente e nel cuore di queste protagoniste, che si dimostreranno di un’umanità commovente, quasi superiore a quella dei loro creatori. Perché nonostante siano programmate per essere ciò che sono, riescono ad appropriarsi delle emozioni umane con doloroso realismo. I legami affettivi che creano sono reali, la compassione che provano è reale. Così come è reale il loro dolore, l’emozione che più di tutte dimostra quanto quei corpi sintetici siano abitati da una coscienza autentica, da una mente pensante e un cuore pulsante, anche se solo metaforicamente.
Per raccontarci un processo così complesso come la ricerca del proprio io, il duo Nolan/Joy non poteva affidarsi a una narrazione convenzionale. Ciò di cui aveva bisogno era un impianto narrativo complesso, adatto a un viaggio interiore verso la conquista del libero arbitrio. Ed è così che Westworld, che già ci aveva incantato col brivido dell’avventura e la sua meravigliosa poesia, ci ha ribaltato il cervello con due timeline sovrapposte. Due linee temporali diverse incastrate talmente bene fra loro da scomparire l’una nell’altra. Complessa, intricata e ricca di spunti originali, la serie ci ha ingannato per tutta la prima stagione senza darlo a vedere. Almeno fino agli episodi finali che, attraverso colpi di scena destabilizzanti, hanno sbrogliato i fili mostrandoci finalmente la verità.
Guidata da un cast stellare e una regia indimenticabile, Westworld ha lasciato il segno grazie ai suoi misteri, ai personaggi memorabili e a un’eccezionale colonna sonora.
Il risultato: una serie perfetta. Perfetta nella sua narrazione articolata, nelle tematiche affrontate, nella bellezza delle ambientazioni. E che dire della profetica sigla? Così perfetta che avrebbe potuto concludersi con l’episodio finale della prima stagione, lasciando pienamente soddisfatti gli spettatori. Purtroppo, non è andata così. Ed è proprio qui che troviamo il più grande rimpianto dei fan di Westworld: l’aver assistito alla lenta involuzione della narrazione, al distorcimento di un’opera che, con il passare delle stagioni, ha perso sempre di più la sua poesia e il perfetto equilibrio fra azione e introspezione.
In realtà, il secondo ciclo di episodi non è da buttare. Difatti, il capitolo centrale conserva la stessa anima del primo, continuando a regalare riflessioni sul libero arbitrio, sulla compassione e sulla nostra capacità di elevarci al di sopra dei nostri istinti. Così come su quella di lasciarci andare alle peggiori pulsioni. Tuttavia, nonostante non possa essere considerato un prodotto scadente, questo secondo capitolo si è perso in intrecci fin troppo complessi, in linee narrative che, per quanto emozionanti e ben costruite, hanno confuso gli spettatori. Peccando di ambizione, Westworld ha finito per complicare una storia che poteva essere raccontata con maggior linearità, evitando così di frammentare la narrazione stessa.
Basti pensare alla storyline dello Shogun World. Nonostante la bellezza disarmante del parco e i personaggi dal grande potenziale, questa parentesi giapponese è risultata fuori luogo nella già complicata storia principale: un intreccio che porta avanti la lotta fra umani e androidi, ormai così simili fra loro da non riuscire più a percepire la linea invisibile che li separa. Perché una volta che Dolores capisce che “i doni divini non vengono da un potere superiore ma dal potere della nostra mente“, la sua reazione è quella di usare la stessa violenza dei suoi creatori. Finalmente libera di scegliere, la dolce ragazza di campagna che riusciva a scorgere la bellezza del mondo mette da parte la sua ingenuità, dando inizio a una rivoluzione necessaria, ma anche terribilmente sanguinolenta. Una guerra che mieterà vittime da entrambe le parti, e che ci mostrerà quanto gli androidi siano disposti a sacrificare tutto pur di ottenere la libertà, proteggere una persona amata, o semplicemente fare la cosa giusta. Tutte decisioni che finalmente possono rivendicare come proprie.
Malgrado i suoi difetti, la seconda stagione ha conservato lo spirito che aveva alimentato i primi dieci episodi. Ma invece di fermarsi, Westworld ha voluto spingersi ancora oltre, verso un mondo reale che, purtroppo, non è riuscito a incantarci come il parco.
La terza stagione ha infatti segnato il vero declino di Westworld che, una volta uscita dalle lande del west, non è più stata la stessa. Desiderosi di raggiungere un pubblico più ampio, Nolan e Joy hanno deciso di semplificare le nuove puntate, sbarazzandosi delle storyline complicate e delle timeline sovrapposte. Una scelta comprensibile, soprattutto se si considera l’esperienza della seconda stagione. Ma con la maggior linearità è arrivata anche un’opera di scarnificazione, che ha privato lo show della sua complessità, dei toccanti momenti di introspezione. L’equilibrio perfetto fra fantascienza e misteri, fra la cruda analisi dell’umanità e la fiducia riposta nella sua bellezza non è più stata la protagonista dello show, bensì una semplice comparsa. Una piccola parentesi che, di tanto in tanto, ha fatto capolino fra gli eccessivi momenti di azione (e diciamocelo, anche di trash).
Il vero problema non è stata la nuova ambientazione o i personaggi inediti, ma la mancanza della poesia, della meraviglia. Dell’emozione profonda scaturita da paesaggi mozzafiato, prese di coscienza sconvolgenti e plot twist inseriti al momento giusto. L’opera di semplificazione ha impoverito la storia prosciugando la narrazione, così come i protagonisti che, in molti casi, hanno perso ciò che li aveva resi grandiosi. William e Bernard (Jeffrey Wright) sono stati rilegati a personaggi secondari, che hanno avuto la possibilità di brillare solo in un paio di occasioni. Maeve, da sempre una donna risoluta e fiera, è stata trasformata in una mera pedina. E la stessa Dolores si è rivelata piuttosto unidimensionale, salvo nel finale in cui ha dimostrato di non aver mai perso la sua fiducia nel mondo (anche se forse troppo tardi).
Se non altro, l’introduzione di Caleb (Aaron Paul) ha permesso allo show di affrontare una critica sociale per niente scontata, gettando luce su un mondo reale che non è poi così diverso dal parco (o da quello che potrebbe diventare il nostro, di mondo). Così come gli androidi erano guidati dalla programmazione, gli esseri umani sono controllati da Rehoboam, un’Intelligenza Artificiale che condanna l’umanità a loop infiniti, percorsi prestabiliti ed epiloghi crudeli. Il mondo di Caleb è infatti un’illusione, un gioco contraffatto affinché vincano sempre i potenti sfruttando tecnologie avanzate, inibitori dei sensi e le più comuni debolezze umane. Dunque, attraverso questo nuovo personaggio, Westworld ci ha mostrato quanto anche l’umanità avesse bisogno di liberarsi dalle narrative scelte per loro, emulando così il percorso di autoconsapevolezza che aveva contraddistinto gli androidi nel parco.
Un parallelo sicuramente interessante, ma insufficiente per soddisfare i fan di vecchia data.
Col senno di poi, la terza stagione è infatti un prodotto quasi immaturo, un forzato tentativo di portare avanti uno show che avrebbe dovuto fermarsi già da tempo. O quantomeno trasformarsi in una serie antologica che potesse esplorare personaggi, temi e conflitti diversi. Nell’ambientazione cyperpunk degli ultimi episodi non c’è quasi più traccia del cuore del passato, dell’entusiasmante senso di meraviglia degli albori. Non c’è più il magnetismo di Robert Ford (Anthony Hopkins) che, a ogni sua apparizione, era in grado di tenerci incollati allo schermo. Così come è scomparso il senso di scoperta che aveva accompagnato i viaggi di Dolores, simbolo di un viaggio interiore intrigante e soddisfacente. È difficile ammetterlo, ma Westworld non è più Westworld. Il parco e la sua magia sono ormai una distante memoria. Ma si sa, la speranza è l’ultima a morire. Il declino della terza stagione potrebbe essere solo un intoppo temporaneo, un capitolo di transizione che ci possa preparare a un universo che, ancora una volta, sarà capace di affascinarci. Un ponte che possa riconnetterci con quelle menti complesse e intricate che ci avevano fatto mettere tutto in discussione.
Chissà, forse è troppo tardi per rimediare. Ma di fronte all’ignoto non ci resta che sperare di ritrovare quell’insostituibile poesia, augurandoci che non abbia davvero incontrato la violenta fine decantata dal Bardo dell’Avon.