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Behind The Series – La critica del sistema di The Good Place

the good place finale

Behind The Series è la rubrica di Hall of Series in cui vi raccontiamo tutto quel che c’è dietro le nostre serie tv preferite. Sul piano tecnico, registico, intimistico, talvolta filosofico. Oggi parliamo di The Good Place.

The Good Place ha saputo rivoluzionare e cambiare il modo in cui vengono concepite le sitcom. Pur rientrando in molte caratteristiche del genere – dalla lunghezza della puntata al ritmo delle gag e battute -, i contenuti che vengono presentati agli spettatori sono di altissimo livello: il punto di vista filosofico che è alla base del concept della serie ha una complessità di fondo sorprendente, ma viene comunicato nel modo più immediato, gentile e divertente possibile. Perfino la riflessione teologica riguardante l’esistenza o meno di una vita oltre la morte ha saputo rendersi tangibile nonostante la delicatezza con cui l’argomento viene spesso toccato nell’arco delle stagioni.

Dal 2016 al 2020 la serie è andata in onda per un totale di 53 episodi: il creatore è Michael Schur, famosissimo per essere il produttore e autore di altre serie come Parks and Recreation, Brooklyn Nine-Nine e The Office (US). Ciò che ha cercato di fare in questa sitcom, però, pone The Good Place molti gradini in alto. Sin dall’inizio infatti l’idea della storia era stata perfettamente delineata dalla prima all’ultima puntata grazie anche all’aiuto di Damon Lindelof, creatore e sceneggiatore principale di Lost.

Cosa hanno in comune una sitcom e una delle serie tv più importanti della storia della televisione? La meticolosità con cui sono state scritte e l’azzenzione ai minimi dettagli.

Eleanor Shellstrop, la nostra protagonista, è una donna che si ritrova dopo la sua morte nel “Good Place” una sorta di paradiso-utopia in cui solo i più buoni ed eccezionali esseri umani si ritrovano a passare l’eternità. Michael – e l’omonimia col creatore della serie ci dice già moltissimo – è l’architetto di questo posto, un ente superiore il cui obiettivo è ottimizzare il paradiso per le richieste e le volontà dei propri residenti. C’è un unico intoppo: Eleanor in realtà è accidentalmente finita nel posto sbagliato essendo stata in vita un pessimo individuo. Per cercare di “meritare” il proprio posto nel Good Place si farà aiutare dalla sua fantomatica anima gemella Chidi Anagonye, professore universitario di filosofia morale.

Da questa premessa nell’arco delle quattro stagioni i nostri personaggi tornano in vita, muoiono di nuovo, attraversano l’aldilà come nel famoso viaggio dantesco sempre alla ricerca di un unica meta: raggiungere il Paradiso.

The Good Place è il luogo delle seconde possibilità

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The Good Place è uno show molto meta-televisivo: di solito con questo termine, utilizzato soprattuto nell’ambito dei media studies, si indica un prodotto o una materia che riflette su se stessa, cioè sulla sua natura, sui suoi fondamenti teorici, sulle sue finalità. Con questa definizione possiamo affermare che tutte e quattro le stagioni vanno viste e interpretate come un commento pratico riguardante il destino e le motivazioni che si celano dietro le serie tv.

Ciò che è intrattenimento nasconde un’anima complessa, smuovendo sentimenti e portando gli individui a riflettere sulle proprie azioni e, soprattutto, a cambiare.

Le premesse, d’altronde, lo fanno capire subito: così come in molte sitcom nella serie quattro sconosciuti, diversi anni luce l’uno dall’altra, si ritrovano a dover convivere e superare conflitti o innamorarsi per il puro piacere voyueristico dell’archietto Michael (e, per pura e semplice proprietà transitiva, anche per il piacere degli spettatori). Nel momento in cui, alla fine della prima stagione, il grande plot twist viene svelato – ovvero che il fantomatico Good Place non è altro che un modo contorto per torturali – l’obiettivo dei personaggi si trasforma.

Al posto di continuare nel mantenere una finzione, la domanda ultima che Eleanor e i suoi amici cercano di fugare riguarda una verità soltanto teorica: le persone possono diventare buone? Alla fine della serie ci viene data una risposta chiara e coincisa, ovvero che si può riuscire a migliorarsi soltando aiutando le altre persone.

In fondo il problema di Eleanor – e allo stesso modo il problema di molte persone cresciute nella nostra contemporaneità – è sicuramente il suo individualismo: cosa dobbiamo l’un l’altro? All’inizio della serie la sua risposta è “Nulla”, motivo per cui la salvaguardia della propria vita viene prima di tutto il resto (portando la protagonista stessa però, in un assurdo gioco del destino, a morirne).

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In un periodo storico in cui la reglione è sempre meno il centro e il fulcro dell’interiorità di ogni persona, domande e risposte su ciò che ci rende buone persone degne di un’eternità di felicità rappresentano un vero dilemma. Cosa c’è dopo la morte? E se ogni buona azione risulta inutile nel raggiungimento del Paradiso, perchè le persone dovrebbero continuare a compierle?

Una delle idee filosofiche più eviscerate nella serie è il concetto di contrattualismo: all’origine di questo modo di vedere c’è l’individualismo e i suoi maggiori esponenti sono stati filosofi come Thomas Hobbes, John Locke e Jean-Jacques Rousseau. Al di là delle differenze maggiori tra questi tre esponenti, l’idea dietro il contratto sociale è semplice: i singoli individui decidono di andare contro il proprio stato di natura (che prevede una condizione di instabilità e insicurezza derivata dalla mancanza di leggi e dalla vittoria del più forte) per limitare a vicenda le proprie libertà e porre dei confini precisi nei confronti di ciò che è giusto o sbagliato per imparare a vivere in armonia e creare così una società. Nell’arco della serie si capisce come in fondo, però, il problema non sta nel vantaggio che ogni persona può trarre dall’altro, ma nella volontà incondizionata di cambiare, di migliorare, di aiutare, verità che nel contrattualismo non sembra minimamente esistere.

Il grande problema del Good Place, infatti, sta nel non tenere conto della complessità della contemporaneità: se anche comprare un mazzo di rose diventa un “peccato” per una serie di fattori che il singolo non può controllare, è facile capire come nessuno sia degno di vivere l’eternità in paradiso. Ciò che scoprono i nostri protagonisti – e il punto principale che lo stesso Schur voleva portare a casa – è che ognuno di noi, con le proprie tempistiche, può davvero cambiare in meglio.

Prendendo la concezione di Jean-Paul Sartre “L’inferno sono gli altri” presentata dal filosofo nell’opera teatrale “A porte chiuse”, la serie capovolge questo modo molto moderno di pensare il rapporto con la comunità. Sartre è infatti uno dei principali esponenti dell’esistenzialismo e in particolare dell’umanesimo ateo, una corrente Novecentesca che individua il singolo come radicalmente libero e responsabile delle sue scelte, non avendo più bisogno di Dio per donare un senso alla propria esistenza. Questo allontanamento dalla fede, però, vanifica il senso di comunità e anzi vede nel rapporto con le altre persone il peggiore dei mali.

Per il filosofo infatti l’inferno è popolato dall’altra gente, dagli sconosciuti che violano lo spazio vitale del soggetto, lo toccano, lo limitano e lo scrutano mantenendo sempre un giudizio nei suoi confronti. Nonostante sia facile rivedersi in questo modo di concepire la società – soprattutto in un’era perennemente collegata grazie, per esempio, ai social network – The Good Place propone un conscio cambio di prospettiva davvero rivoluzionario: gli altri non sono inferno, ma sono aiuto. Infatti la settima puntata della quarta stagione i creatori modificano il nome dell’opera teatrale di Sartre in “L’aiuto sono gli altri“.

Il finale e qual è per la serie il senso della vita

In un’intervista a Vulture, Schur ha raccontato come è nata l’idea della serie tv: dopo aver visto la serie The Leftovers, l’autore – stimolato anche dall’incontro con Damon Lindelof – ha cercato di scrivere un qualcosa di leggero, ma che riuscisse allo stesso modo di viaggiare sui binari del sovrannaturale.

L’unico modo per creare un prodotto così complesso, sfaccettato e fondamentalmente diretto è stato pianificare il tutto sin dall’inizio. Ogni falla nel sistema, ogni colpo di scena andava calibrato per mantenere il ritmo e la leggerezza della sitcom senza però togliere impatto ai motivi che avevano fatto nascere la serie in un primo momento.

Automaticamente poi la scelta di chiudere la serie nella quarta stagione è stata precisamente voluta anche qui in chiave meta-televisiva: la storia doveva avere un inizio e una conclusione, così come l’esistenza dei protagonisti, più volte estesa nell’arco delle puntate, doveva raggiungere un tanto agoniato epilogo. Ecco che la metafora stessa del viaggio di Eleanor diventa valida anche per la televisione, per i suoi prodotti e per ogni opera artistica: nonostante il piacere sia immenso, ogni cosa ha la sua fine da rispettare. Non si può continuare all’infinito.

Quando Eleanor e Chidi riescono a convinvere il Giudice Gen (diminutivo di Idrogeno, la molecola alla base dell’Universo) che l’umanità non va punita per ciò che ha fatto in vita, ma merita una nuova chance perchè capace inevitbilmente di cambiare e migliorarsi il finale sembra essere già scritto: una sorta di moderno “E vissero contenti e felici”. Se questa fosse stata l’intenzione però non ci sarebbero state altre puntate dopo. Qual è allora il punto della serie?

La risoluzione di tutti i conflitti si rivela in realtà un grande dramma: il vero Paradiso non è altro che millenni e millenni di pace, di giubilio… e di noia. La mente umana non è fatta per poter continuare a pensare o agire per così tanto tempo e anche la tranquillità, a un certo punto, risulta assolutamente nociva.

Nel finale di serie “Quando sei pronto” infatti si esplora questa grande verità: mentre Eleanor cerca di riempire il proprio tempo e il tempo del suo amato Chidi in tutti i modi possibili, ogni personaggio principale decide di dire addio al Good Place, per propria scelta, cessando di esistere. Schur nella sopracitata intervista afferma:

“It’s sort of an inescapable conclusion,” he said. “It doesn’t matter how great things are, if they go on forever they will get boring.”

“È una conclusione da cui non si può fuggire,” dice “Non importa quanto le cose siano spettacolari, ma se vanno avanti per sempre diventeranno noiose.”

Ogni personaggio decide infatti che è il momento di chiudere la propria esistenza: prima Jason, poi Chidi. Tahani si trasforma nel primo “architetto” umano nell’eternità, mentre Michael ha l’opportunità di vivere sulla Terra e provare così l’ebrezza delle emozioni e sensazioni umani. E Eleanor? Conclude il tutto rendendosi un tutt’uno con l’Universo, scegliendo di ritornare all’origine e trasformandosi in una sorta di energia luminosa che va a colpire un umano e permettendogli così di compiere una giusta azione.

Janet: “Cosa credi succeda quanto le persone attraversano quella porta? È l’unica cosa in tutto l’Universo che non so.”
Eleanor: “Non lo so neanche io. L’onda ritorna nell’oceano. Cosa l’oceano fa con l’acqua ritornata nessuno lo sa. Ma un non-robot molto saggio una volta mia detto: “La vera gioia si nasconde nel mistero”.

Ecco dunque che il senso della vita non è dettato dalla propria fine ultima, dal raggiungimento di un Paradiso, ma anzi il vero motore è dato da ciò che si fa con il tempo – fortunatamente limitato – che si ha.

The Good Place pone quindi una fine molto teologica e filosofica nonostante le premesse tutt’altro che realistiche della serie. L’umanità del bisogno di incertezza che caratterizza l’esistenza rappresenta un messaggio chiaro, ma che spesso viene posto in secondo piano. Nonostante il finale tutt’altro che gioiso, ciò che succede riesce comunque a risultare abbastanza soddisfacente e soprattutto definitivo per gli spettatori. Dopo essersi interrogati sulla figura dell’uomo e del suo ruolo all’interno dell’Universo, dopo aver cambiato le regole dell’Aldilà convincendo enti celesti dell’immenso potenziale umano, i nostri protagonisti sono pronti a salpare via verso una nuova, inconscibile realtà. E gli spettatori, per quanto affezionati ai buffi e strampalati personaggi principali, non possono che accettare questo finale e rivedere nella scelta di chiudere all’apice del successo della serie un grande insegnamento da portare con sè: cosa dobbiamo agli altri? La risposta è semplice: le nostre migliori azioni.

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